(Andes, odierna Pietole, Mantova, 70 - Brindisi 19 a.C.) poeta latino.La formazione e gli anni giovanili Suo padre era proprietario di terreni, agiato, non ricco. Il giovane V. fece i suoi primi studi a Mantova e a Cremona, dove restò fino a quindici anni: poi passò a Milano e di qui a Roma, che dovette esercitare su di lui, timido provinciale, una grandissima impressione. Seguì i corsi del retore Epidio, ma presto li abbandonò. Non aveva attitudine per l’eloquenza: era goffo, parlava con lentezza, non sapeva affrontare il pubblico. Così, seguendo la sua nativa vocazione che era quella di contemplare il mondo più che di agirvi, si recò a Napoli e si mise alla scuola del filosofo epicureo Sirone. A quest’epoca risalgono anche i suoi interessi per l’astronomia, la botanica, la zoologia, la medicina e la matematica. Nel contempo scriveva i suoi primi versi, nel gusto del suo grande conterraneo cisalpino Catullo. Quando compose le sue prime Bucoliche aveva 28 anni. Fu in questo periodo, nell’anno 41, che il poeta perse, sembra temporaneamente, i suoi poderi, durante la distribuzione di terre italiche ai veterani reduci da Filippi; l’eco della violenza soldatesca risuona dolorosamente nei suoi canti pastorali. Ma, per intervento di Asinio Pollione, governatore della Cisalpina, e poi di Alfeno Varo, V. riuscì, sembra, a riavere i campi paterni. Non vi restò, tuttavia, probabilmente per ragioni di salute, e andò ad abitare nel sud, alternando la sua dimora tra Napoli e Roma, dove aveva una casa presso i giardini di Mecenate, sull’Esquilino. Fra il 39 e il 37 si colloca l’avvenimento fondamentale della sua vita: l’ingresso nel circolo di Mecenate. Sempre discreto e timoroso, quando veniva, se pur di rado, a Roma (dove erano i suoi amici poeti, Cornelio Gallo, Orazio, Vario, Tucca, tutti del circolo letterario di Mecenate), si vedeva additato dalla gente: era già famoso, e le sue Bucoliche erano spesso cantate in teatro da attori di professione.Gli anni della maturità In Campania, tra il 37 e il 30, compose le Georgiche, poi si dedicò tutto all’elaborazione dell’Eneide, il poema epico nazionale. Diversamente da quanto, secondo la tradizione, era solito fare (si alzava presto al mattino e buttava giù molti versi; poi, durante il giorno, se li sillabava interiormente), per l’Eneide V. fece prima una stesura in prosa e divise la trama in 12 libri: poi si mise a comporli a uno a uno, seguendo il suo estro e non la successione dei fatti. Nel 24 ne lesse tre canti alla corte, davanti all’imperatore Augusto e a sua moglie Ottavia. Dopo undici anni di lavoro, V., a opera compiuta, non era ancora soddisfatto: molti versi restavano provvisori; doveva togliere alcune discordanze tra un libro e l’altro; sentiva il bisogno di visitare i luoghi, in Grecia e in Asia minore, che erano il teatro dell’azione della prima parte del suo poema. Così, a cinquantadue anni, partì per Atene. Là, dopo una passeggiata a Megara sotto il sole infuocato, si ammalò. Incontrato ad Atene l’imperatore Augusto, che veniva dall’Oriente, ritornò con lui per mare, sbarcando a Brindisi. Si tramanda che sul letto di morte chiese insistentemente il suo manoscritto dell’Eneide per distruggerlo: non fu accontentato. Spirò qualche giorno dopo, in settembre. La sua salma venne trasportata a Napoli. Fu sepolto sulla strada di Pozzuoli.L’«Appendix» e le «Bucoliche» Delle poesie e dei poemetti attribuiti, sin dall’antichità, a V. giovane e raccolte dai moderni nell’Appendix Vergiliana (Catalepton liber, «Libro di poesie spicciole»; Culex, «La zanzara»; Ciris, «La gazza», sul mito di Scilla; Dirae, «Le maledizioni»; Lydia, carme elegiaco per una donna; Copa, «L’ostessa»; due Elegiae in Maecenatem; Moretum, «La torta campagnola»), solo alcune poesie del Catalepton liber hanno qualche probabilità di essere autentiche. In sostanza la storia della poesia di V. comincia con le Bucoliche (Bucolicon liber), composte in tre anni, dal 42 al 39. Il volume è un insieme di 10 egloghe in esametri, di cui alcune sono lirico-narrative, altre in forma dialogica; distribuite non nella successione cronologica della loro stesura, ma con un ordine di intento letterario. Il modello, almeno per i carmi più vecchi, è il siracusano Teocrito (sec. III a.C.); ma nello spazio letterario del paesaggio siciliano (una regione di sogno, vaga e indeterminata) già si insinuano notazioni precise della terra natia, con accenni alle opere dei campi, alle rive ricche di canne del Mincio, ai casolari sparsi nella pianura. In questa poesia di evasione, scritta al tempo delle guerre civili, regna una vita semplice e innocente, fatta di umili lavori, di ozi e di silenzio, di gare di canto all’ombra dei faggi e delle querce. I pastori di V. non hanno nulla di rozzo o di primitivo: sono idealizzati, quasi fossero tutti dei poeti fuggiti dal frastuono della città per venire a contatto con la natura. Nelle egloghe prima e nona, scritte dopo il 41, quando anche il territorio di Mantova fu coinvolto nella distribuzione di poderi ai veterani, il sogno di vita appartata svanisce davanti alla brutale pretesa dei militari. Nella stessa ansia di partecipazione all’attualità politica si iscrive l’egloga quarta, con il suo appassionato messaggio di speranza in un mondo finalmente pacificato. Anche l’ultima bucolica, la decima, con il lungo lamento di Gallo (l’amico poeta vittima di una infelice passione d’amore) propone come salvezza dalla disperazione un rifugio nella campagna, ma nella consapevolezza, alla fine, di un sogno impossibile. Così V., che parte da Teocrito in una suggestione tutta letteraria, trova nel dolore la definizione del suo mondo poetico, a cui si manterrà anche successivamente fedele: un mondo nel quale la violenza della storia si pone come alternativa, in un contrasto insanabile, con un’ideale Arcadia o età dell’oro, dove gli uomini vivono in pace dedicandosi ai loro lavori, in una religiosa accettazione della loro sorte.Le «Georgiche» Nel 37 a.C. V. prese a comporre le Georgiche (Georgicon libri IV). L’idea di celebrare l’agricoltura gli venne da Mecenate. Il suggerimento rientrava, nelle mire del consigliere di Ottaviano, in un preciso piano propagandistico di ritorno alla terra dopo tanti anni di lotte civili; ma il poeta ebbe intera la sua libertà di trattazione. V. si dedicò all’opera, nel suo ritiro in Campania, per ben sette anni. Le Georgiche erano finite nell’anno 30; ed era tale l’interessamento da parte di Ottaviano per il poema, che quando il principe si recò ad Atella, in Campania, per curarsi un mal di gola, si fece leggere l’intero carme. La lettura durò quattro giorni, uno per libro; e ogni volta che la voce del poeta si arrochiva per la fatica, lo sostituiva nella recitazione dei versi Mecenate. V. si applicò alla composizione delle Georgiche con lo scrupolo che gli era proprio. Si aggiornò sui trattati di agricoltura scritti in Grecia e in ambiente romano; conobbe anche l’opera di Magone cartaginese. (Ma è bene evitare l’esagerazione di considerare V. un esperto di agronomia. Si è notato, per es., che ai suoi tempi esistevano in Italia sei maniere di coltivare la vite, mentre V. parla solo di quella della sua terra, in cui l’arbusto è legato all’olmo; alla coltura dell’olivo il poeta fa solo un accenno, quando Varrone, suo contemporaneo, nel libro De re rustica ne trattava diffusamente, e così via. Il problema delle fonti delle Georgiche, insomma, va ridotto alla sua giusta dimensione.) Il primo libro, che tratta della coltivazione della terra, si iscrive idealmente nel giro delle stagioni durante l’anno, dalla primavera all’inverno. La materia tecnica si fa ambiente e paesaggio: non vi si parla di schiavi né di fattori, ma è tenuta presente la misura di un podere in cui sono chiamati braccianti solo al tempo della mietitura. Il secondo libro è come animato da un respiro di gioia: è il canto della vigna e del dio Bacco, della vitalità misteriosa della natura, e si conclude con la celebrazione della vita campestre in contrapposizione alla città. Il terzo libro tratta dell’allevamento del bestiame, con commossa partecipazione per quello che c’è di «umano» (amori impetuosi, malattie, la morte) nella esistenza di queste creature cariche di energia e splendide di bellezza; anche qui, gli aspetti didascalici si risolvono in ammirata contemplazione, in immagine plastica. Nel quarto libro sono cantate le api (sappiamo che il padre del poeta era un appassionato apicultore). La trattazione ha qualcosa di entusiastico e di aereo; nella vita delle api V. ritrova l’immagine della società umana, in cui l’individuo ha il dovere di subordinare il suo interesse particolare al bene della collettività. L’ultima parte del libro terminava originariamente con la lode dell’amico poeta Cornelio Gallo, primo prefetto dell’Egitto. Ma dopo la disgrazia e il suicidio di Gallo, verso il 26 a.C., V. sostituì all’elogio dell’amico la favola di Aristeo.L’«Eneide» Anche l’Eneide (Aeneidos libri XII), l’ultima fatica di V., nacque per suggerimento esterno. Fu Augusto, secondo la tradizione, a proporre al poeta il compito di celebrare la gente Giulia (gens Iulia, discendente da Iulus figlio di Enea e quindi da Venere) a cui egli apparteneva. V. accondiscese (la tentazione di trattare il genere epico gli covava dentro da tempo), ma invece di cantare le gesta di Augusto si rifugiò nel mito. Così, tema dell’opera non fu un momento di storia contemporanea, ma un passato lontano: la vicenda dolorosa di un eroe che insieme alla sua gente va in cerca di una nuova patria nella terra del tramonto, l’Esperia, in obbedienza alla volontà degli dei. Questo eroe è Enea, personaggio minore nell’Iliade, ma già familiare ai romani per i poemi di Nevio e di Ennio e per le storie di Catone e di Varrone. L’argomento racchiude una prima parte romanzesca (i viaggi per mare, l’amore di Didone, la discesa agli inferi: libri 1-6), e un racconto più propriamente epico, di dure lotte e di stragi in terra d’Italia (libri 7-12): una Odissea e un’Iliade, dunque, condensate in una misura assai minore. Il confronto con il grande predecessore s’imponeva come una ben ardua gara, in termini di emulazione e non di imitazione. E V. si mise all’opera alternando alla meditata elaborazione in versi di singoli brani severi studi sulle antichità romane, le tradizioni delle genti italiche, la liturgia culturale dei primitivi. Subito affrontò il tema che meno gli era congeniale, tra incertezze e scoramenti: la guerra. I libri a cui dapprima attese sono appunto quelli della seconda parte del poema (il settimo, il decimo, l’undicesimo, il dodicesimo); e solo dopo, finalmente, l’ottavo, in cui cantò la Roma dei suoi sogni, Roma prima di Roma.L’idea che dall’interno percorre tutta la vicenda del poema, è la fatalità della nascita di Roma. Gli dei, che sono fuori del tempo, l’hanno già davanti come una certezza; ma gli uomini vivono i loro giorni in una perpetua nebbia di rimpianti e di perplessità, e il loro soffrire non ha sosta. L’eroe che rappresenta questa condizione esistenziale è Enea, con il suo carico di doveri, la sua missione da compiere come capo e sacerdote della sua gente. Di fronte a lui, chiuso e triste, assorto nel suo interminabile viaggio che a volte pare non aver senso, si accampano due figure più libere e istintive, con le loro ragioni tutte umane: la bellissima Didone e il selvaggio, giovanile Turno. Per ironia della sorte, entrambi sono offesi dal mite e pio Enea. E intorno a lui, sul suo cammino, giovani che cadono in campo, padri che piangono, madri che si disperano senza capire: una serie infinita di dolori che trova la sua giustificazione, agli occhi del poeta, solo in una prospettiva religiosa.L’Eneide è una grande idea non interamente realizzata: ed è significativo il fatto che V. leggesse davanti ad Augusto e a Ottavia il libro II, il IV e il VI, gli stessi che piacciono ai lettori moderni per la compiutezza drammatica, la tensione lirica che li anima; e che sul letto di morte volesse la distruzione della sua opera. Il modo stesso della composizione può chiarire la mancanza di ritmo narrativo. In effetti, V. non ci dà un racconto filato, ma una successione di quadri, di scene, sempre lavorati, verso per verso, con uno splendido scrupolo artigianale; l’opera è tutta affidata alla trascolorante misteriosità fonica e alla polivalenza semantica dei suoi intraducibili versi.Fortuna di Virgilio V. ha goduto di una fortuna quasi ininterrotta. Le sue opere furono accolte con entusiasmo; l’Eneide fu salutata da Properzio, già prima della pubblicazione, come un poema superiore a quelli omerici. Le poche critiche al poema epico (riguardanti la ridondanza dello stile e i furta, ossia la frequenza di echi da poeti precedenti) non riuscirono mai a intaccare il prestigio di V. Dall’età augustea in poi non ci fu quasi poeta latino che non presentasse echi virgiliani, e nel sec. I d.C. tutta la poesia bucolica ed epica latina ebbe continuamente V. come fonte d’ispirazione e termine di confronto. Alla diffusione di V. nella cultura comune contribuì la scuola, in cui già poco tempo dopo la sua morte fu letto e commentato come un classico. Il lavoro di interpretazione e di commento - cominciato già nel sec. I d.C. (con Igino, Remmio Palemone, Valerio Probo) - si arricchì nei due secoli successivi; risalgono al sec. IV i commenti più ampi e sistematici, che furono alla base della lettura medievale di V. È andato perduto il commento di Elio Donato (forse il migliore), ma ne restano larghe tracce nel commento di Servio; con interessi più retorici che eruditi è condotto quello di Tiberio Donato. Sui metodi e sui risultati dell’interpretazione dell’Eneide informa anche Macrobio. Specialmente da Macrobio è evidente che il lettore della tarda antichità non si rivolgeva a V. solo come a un poeta di stile perfetto, ma come a una fonte ricca di dottrina antiquaria e, inoltre, come a un maestro di sapienza e di vita. Di questo aspetto si appropriò anche la cultura cristiana, specialmente interpretando la quarta egloga come profezia dell’avvento di Cristo (interpretazione che risale al tempo di Costantino). Un diverso sviluppo di questa configurazione è nelle leggende su V. mago o negromante, la cui prima apparizione può collocarsi nel sec. XII. Nel medioevo il poeta, specialmente attraverso l’Eneide, fu sempre noto alle persone colte; la sua influenza, in Italia, acquistò particolare ampiezza nel sec. XIV grazie a Dante (che nella Commedia fa di lui il simbolo del più profondo pensiero precristiano al di fuori dell’Antico Testamento), a Petrarca e a Boccaccio. L’amore e la sensibilità di Petrarca per lo stile virgiliano preludono all’accostamento umanistico del sec. XV.Dall’età umanistica a quella illuministica Virgilio restò un punto di riferimento costante. La sua presenza nella poesia bucolica, didascalica, epica in latino e in volgare, dal Quattrocento in poi, non esaurisce la sua vasta influenza: egli è stato usato, non senza qualche deformazione e specialmente nel Cinquecento, quale modello di uno stile nobile, idealizzante, talvolta contrapposto al «realismo» di Omero; ma il suo influsso più fecondo è quello che ha portato alla liricizzazione dello stile, alla ricerca della musicalità dalle risonanze insieme ampie e sottili: uno stimolo che ha operato meravigliosamente in Tasso e in Leopardi.Il culto romantico della poesia primitiva ha nuociuto molto alla fortuna di Virgilio in Germania, ma meno in Francia e molto meno in Italia. L’interpretazione di Ch.-A. Sainte-Beuve, il culto da parte di G. Carducci e di G. Pascoli, il fascino delle Bucoliche su P. Valéry e A. Gide sono alcuni segni della fortuna rinnovata di V.